
L’azienda Bellese sorge là dove il Piave mormorava, sfiorata dal Fosso Negrisia, un corso d’acqua d’origine sorgiva, influenzato dal grande “Fiume Sacro alla Patria”, teatro dei combattimenti della I guerra mondiale.
Questa la storia più antica, mentre quella più recente risale agli anni ’60, quando Ireno decide di affiancare all’allevamento dei bachi da seta dei filari d’uva: accanto ha il figlio Giacomo, che lo aiuta a vendere il vino al minuto.
Con il nuovo millennio subentra il nipote Enzo, che avvia la fase di rinnovamento dei vigneti, della cantina e della gestione aziendale. “E’ la modernità bellezza e nessuno ci può fare niente”, mi viene da dire parafrasando Humphrey Bogart nel film L’ultima minaccia di Richard Brooks. Citazione perfettamente calzante allo spirito dei nostri tempi enologici, che anche i Bellese hanno seguito, riuscendo però a coniugare al meglio tradizione contadina e tecnologia. Non a caso oggi Giacomo, sua moglie Silvana, Enzo e la consorte Désirée fanno parte della Fivi, la Federazione Italiana Vignaioli Indipendenti. Il che vuol dire che coltivano, vinificano e imbottigliano direttamente con grande cura e passione.

E il risultato si vede in bottiglia, perché i loro vini sono la schietta espressione di quello che la pianura plavense può offrire su una superficie vitata non molto grande, ma con una bella varietà di terreni; il che ha permesso di coltivare alcuni vitigni, tra cui Pinot Grigio, Cabernet Sauvignon e Chardonnay, ma anche Refosco, Glera (l’uva del Prosecco) e Raboso Piave, un autoctono robusto e asprigno, figlio delle “grave”, letti ghiaiosi e ciottolosi dono delle frequenti alluvioni del Piave.
Ecco spiegato perché questo Raboso lgt Veneto mi ha fatto sobbalzare all’assaggio. Ottenuto da uve allevate a Bellussera (antico, quasi estinto, sistema di coltivazione nato in Veneto alla fine dell’800, per cui il paesaggio appare ricamato da tanti raggi) sono raccolte a mano, diraspate e macerate un po’ (4-5 giorni) sulle bucce. Il resto lo fa una pressatura soffice e una fermentazione controllata in acciaio; affinato 60 giorni in cemento, una volta leggermente filtrato, il vino va di nuovo in acciaio per la presa di spuma secondo il metodo Martinotti.
Passano almeno due mesi, prima che lo si possa bere. Ma vale la pena di aspettare per sentire l’odore della frutta rossa fresca, vedere il suo rubino cristallino e assaporare la marasca, la violetta e la mora selvatica che assalgono il palato assieme a una grande vivacità. Con i suoi oltre 11 gradi di alcol, è perfetto con salumi e formaggi, ma anche – almeno per me – con un cacciucco o dei moscardini in umido. Va bevuto sui 10°-12° C, ascoltando il sound pop latino Boa Sorte/Good Luck di Vanessa Da Mata & Ben Harper.
Clara Ippolito