Un anfiteatro di vigne distese su piccoli terrazzamenti con arnie e ulivi tutt’intorno: questa l’immagine evocativa di Aquila del Torre, un’azienda vinicola inscritta nella parte più settentrionale della denominazione Friuli Colli Orientali. Fondata nei primi anni del ‘900 dal cavalier Giovanni Sbuelz, nel 1996 passa nelle mani di Claudio Ciani e, quindi, di Michele, suo figlio, giovane depositario di una vocazione familiare. Un’attitudine a fare vino, che continua da una parte con l’investimento nella tradizione, dall’altra con una salda fede in un’agricoltura “vivente”, più sana, rispettosa dell’ambiente e delle persone.

Diciotto gli ettari di vigne appoggiate sul flysch (“ponca” in friulano), una successione di rocce sedimentarie eoceniche, fertile retaggio di milioni di anni fa: strati di arenaria, marne argillose e depositi alluvionali, frutto di un processo geomorfologico di frane sottomarine, emerse in tempi più recenti. Una porzione di terroir che esprime tutto il suo genio nelle sfumature pedoclimatiche di un microclima speciale, dettato dalle sue importanti escursioni termiche, dalle temperature medie inferiori rispetto alla norma e da una maggiore piovosità. La maison si trova a Savorgnano del Torre, borgo che deve il suo nome alla potente e antica amiglia dei Savorgnan, veri “signori dell’acqua” perché padroni delle derivazioni dei fiumi che da qui partivano; buona parte delle vigne sono piantate nel cuore dell’anfiteatro e sul girapoggio della collina esposta a sud, dove allignano le varietà rosse, Merlot e Refosco dal Peduncolo Rosso, mentre a est prospera il Sauvignon Blanc e a ovest le viti storiche di Friulano. Il Picolit e il naturalizzato Riesling Renano fanno loro da contrappunto sul pendio più alto, a 350 metri s.l.m, da dove se il cielo è terso si scorge il sole riflesso nella laguna dell’Alto Adriatico. Qui si seguono i dettami dell’agricoltura biologica: in vigna si semina a mano e si lavora con l’aiuto dei cavalli, che integrano l’utilizzo degli attrezzi meccanici, al sovescio e all’inerbimento spontaneo sono state affiancate nel tempo anche le pratiche dell’agricoltura biodinamica.

Si vinifica con lieviti indigeni, mediante la tecnica del “pied de cuve” (uno starter di fermentazione creato apposta con uve raccolte prima della loro maturazione fisiologica) ma anche con la permanenza prolungata sulle fecce fini, punti fermi nelle attività di cantina, dove si prediligono contenitori di materiale neutro per enfatizzare le differenze varietali e l’origine territoriale; negli ultimi anni ai serbatoi in acciaio inox sono stati affiancate delle botti in rovere di più passaggi e vasi vinari in cemento. A fare il paio con tutto questo un’oliveta popolata da 300 piante di Savorgnana, Bianchera e Gorgazzo, cultivar autoctone inscritte in 66 ettari di bosco, coronamento ideale di un teatro di biodiversità. Fin qui la storia dell’azienda, un racconto che prosegue con l’assaggio dell’At Friulano Friuli Colli Orientali DOC 2019 e dell’At Riesling Friuli Colli Orientali DOC 2018. Una narrazione che parte dalle evocative etichette, rappresentanti l’ombra di un profilo femminile dalla folta chioma, capelli simili alle radici o ai rami di un albero selvatico, inequivocabile rimando a un’azienda resiliente per natura.

Essenziali, simboliche e riconoscibili introducono alla prova del calice, dove il Friulano si mostra di un paglierino rilucente attraversato da nuances verdi, offrendosi al naso generoso di profumi di frutta bianca, con ricordi agrumati e rimandi di fiori di campo; le accennate sensazioni erbacee si sposano bene al delicato finale mandorlato. Sapido e minerale, a tavola fa il paio con zuppe di verdure e vellutate di ortaggi, oltre che con asparagi, uova e pescato; bevuto, non troppo freddo, come ho fatto io, su degli Spaghetti ai gamberoni in bianco e, quindi, con una Quiche Marseille a base di zucchine e formaggio Gruyère, genera una corrispondenza di straordinarie sensazioni.

Dal canto suo, intrigante e sfaccettato, il Riesling ha carattere da vendere come dimostra già il suo giallo paglierino intenso e luminoso; vagamente agrumato, con trame di macchia mediterranea e di mela verde, è dotato di un bouquet audace che fa da anticamera a un gusto perentoriamente minerale con una notevole freschezza e una bella chiusa acida. L’ho bevuto ben fresco in compagnia di un paio di Crostoni di salmone affumicato e caprino, entrée che ha preceduto un Risotto ai frutti di mare, con cui questo vino ha fatto faville. Il sommo gaudio del palato è stato esaltato dall’ascolto in sottofondo di Chain of Tools di Aretha Franklin: un’esperienza dei sensi davvero singolare.
Clara Ippolito
Credits Azienda Aquila del Torre